Il web è cresciuto su un gesto: il click. Meccanico, compulsivo, monetizzabile. Ha trasformato la curiosità in dato, la navigazione in valore di mercato. Oggi, però, c’è chi vuole riscrivere il copione. Non con un altro motore di ricerca, ma con il cosiddetto agentic browsing, un altro modo di pensare il browser.
Comet, lanciato da Perplexity, non è un software per accedere a Internet. È un agente che lo attraversa per noi. Risponde, riassume, prenota, anticipa. Fa il lavoro sporco della navigazione e lo restituisce pulito, sintetizzato, conversazionale. Un ChatGPT con licenza di guidare. Addio schede aperte, addio scroll, addio click. Il futuro della conoscenza online potrebbe non passare più da noi, ma da ciò che ci rappresenta.
Funziona? Sì, e persino troppo. Il rischio non è di perderci. È di arrivare sempre — ovunque — senza mai scegliere davvero la strada. Il web non ci guida: ci accompagna dove già pensava volessimo andare.
Il browser come agente, non come finestra
Comet si presenta come un browser, ma si comporta come un assistente. Costruito su Chromium, l’infrastruttura che alimenta anche Chrome, è stato ripensato per integrare l’intelligenza artificiale fin nel midollo. Non si limita a visualizzare pagine: esegue comandi, avvia conversazioni, porta avanti task. Può cliccare al posto tuo, scorrere articoli, sintetizzarli in tempo reale. Può aiutarti a trovare un hotel e prenotarlo, leggendo i termini e le recensioni per conto tuo. Può ordinare la cena, inviare email, controllare il meteo e proporti un itinerario. La promessa è quella di un’esperienza continua, ininterrotta, dove la ricerca non è più un atto ma uno stato.
Questa modalità ha un nome: agentic browsing. Il browser non è più un contenitore passivo, ma un soggetto operativo. Un compagno di viaggio che agisce, seleziona, sintetizza. E lo fa in base al tuo profilo, alle tue abitudini, ai tuoi prompt. Non ti chiede dove vuoi andare: ti suggerisce direttamente la destinazione.
Dalla curiosità alla delega cognitiva
Comet non è l’ennesimo gingillo per tecno-entusiasti. È il segnale di una trasformazione epistemologica: cercare non vuol più dire esplorare, ma formulare. La domanda diventa l’unico atto creativo; il resto è gestione, automatismo, consegna.
Vuoi sapere qualcosa? Te lo dice. Vuoi il riassunto di un articolo, di un video, di una discussione online? Te lo serve. Vuoi che prenoti la cena? Lo fa. È efficiente, certo. Ma che ne è della deviazione, dell’intoppo, dell’errore fertile? Walter Benjamin osservava che l’esperienza autentica si costruisce nel tempo, nella memoria, nell’attrito col mondo. Non è riducibile a una sequenza di informazioni ben confezionate. Se il web diventa puro servizio, cosa resta della scoperta?
Il modello economico (e ideologico) del non-click
Comet è gratuito? No. Al momento è accessibile tramite invito, ma la sua versione completa richiede un abbonamento da 200 dollari l’anno. Nessuna pubblicità, zero tracciamenti (sulla carta), ma dipendenza totale da un ecosistema chiuso. Modelli linguistici proprietari, API controllate, logiche di intermediazione invisibili.
Non clicchiamo più, è vero. Ma ogni interazione che risparmiamo viene processata, sintetizzata, monetizzata altrove. In questo modello, il web non è più un mosaico di fonti da esplorare. È un flusso filtrato da chi controlla le infrastrutture cognitive. La tua domanda vale non per ciò che chiede, ma per ciò che attiva.
Chi ci guadagna? Chi possiede i modelli, chi controlla l’interfaccia, chi detiene i dati. Chi ci perde? Forse i piccoli editori. Forse i contenuti meno visibili. Sicuramente il nostro senso di agency, quella consapevolezza del cercare che oggi rischia di diventare una mera conferma di suggerimenti ricevuti.
Il falso allarme della fine del pensiero
Qui è facile cadere nella tentazione apocalittica: “l’intelligenza artificiale ci renderà stupidi”, “non sapremo più cercare”, “perderemo la memoria”. È la stessa ansia che ha accolto ogni nuovo medium, dalla stampa alla televisione.
Ma non è questo il punto. Il punto è: quali forme di intelligenza emergono quando deleghiamo? E che tipo di ignoranza ci permette di sopravvivere, quando abbiamo troppe informazioni? Comet (o i prossimi strumenti simili) non ci rende stupidi, ma selettivi. Ma attenzione: più delego, più devo sapere cosa chiedere. La vera competenza non sarà nel trovare, ma nel formulare. Nella qualità della domanda, non nella quantità di risposte.
Comet non è la fine del web. È una delle sue evoluzioni più intelligenti e affascinanti. È il punto in cui l’intelligenza artificiale smette di essere strumento e inizia a diventare interlocutore. Ma ogni nuova interfaccia cambia anche il nostro modo di pensare.
Forse il click non era il problema. Forse il problema è che abbiamo smesso di cercare, già da tempo. I social ci hanno abituati a ricevere — non a domandare. Il pensiero si è adattato al formato: breve, scorrevole, predittivo. Non esploriamo più: scorriamo. Comet porta questa logica al livello successivo. Non è più il contenuto a rincorrerci, ma la risposta. Il rischio non è solo epistemologico, ma culturale: se non siamo più noi a porre le domande, chi definisce ciò che vale la pena sapere?
Il futuro non si gioca nei link, ma nel gesto di interrogare. E se i browser del futuro parlano, sintetizzano, decidono — allora il nostro compito è tornare a formulare domande vere. Domande che aprano, non che confermino